Il recente lancio delle sonde americane LRO e LCROSS dirette alla Luna ha inevitabilmente fatto riemergere un tema già caro all'ex presidente George W. Bush che - 5 anni fa - aveva ribadito la necessità di colonizzare il nostro satellite per poi vedere sbarcare il primo uomo su Marte. Ma al di là della propaganda politica c'è da tenere in considerazione l'enorme sforzo tecnologico per raggiungere tale obiettivo e, soprattutto, per garantire la sopravvivenza dei coloni spaziali durante i lunghi periodi passati lontano da casa. Navigare nel cosmo, infatti, implica confrontarsi con distanze e tempi molto più elevati da percorrere. L'equipaggio di una missione interplanetaria destinata ad arrivare a Marte, ad esempio, impiegherebbe approssimativamente mille giorni e avrebbe bisogno di un carico di più di 30 tonnellate tra viveri e riserve di ossigeno. Per di più l'assenza di aree spaziali per i rifornimenti renderebbe irrealizabile al giorno d'oggi l'invio di astronauti per l'esplorazione di altri corpi del Sistema Solare. È chiaro, quindi, che c'è ancora molta strada da percorrere prima di raggiungere il traguardo Marte.
Eppure un primo passo è appena stato fatto dall'ESA che ha messo in marcia il programma pilota MELiSSA (acronimo di Micro-Ecological Life Support System Alternative) allo scopo di riprodurre in laboratorio le condizioni per la sopravvivenza di uomini e piante a bordo di una navicella spaziale. L'installazione, unica in Europa per le sue caratteristiche, è ubicata al pian terreno della Scuola di Ingegneria dell'Universitat Autònoma di Barcellona (UAB) ed è stata inaugurata in giugno dal direttore dell'ESA, Jean-Jacques Dordain, e dalle autorità locali.
In realtà già negli ultimi anni sulla ISS sono state attrezzate piccole serre spaziali per lo studio del comportamento di vegetali per un loro eventuale utilizzo a lungo termine nello spazio. Il progetto MELiSSA, tuttavia, tenta di ricreare un ecosistema artificiale per la generazione di ossigeno, acqua e alimenti vegetali dal recupero di residui organici come urina, feci e CO2 prodotti dall'equipaggio di una nave spaziale. Il meccanismo di base è composto di un circuito chiuso formato da cinque processi in grado di riprodurre un intero ciclo vitale. Attraverso la decomposizione dei residui per mezzo di processi di fermentazione e conversione di ammoniaca in nitrato vengono alimentate alghe e piante che, a loro volta, raccolgono anidride carbonica, producono ossigeno e filtrano l'acqua. I vegetali inoltre fungono da alimento per l'equipaggio, in modo da chiudere il circolo e ricominciare da capo il processo di riciclaggio.
Durante i primi due anni queste tecnologie verranno applicate su un gruppo di 40 topi che, almeno in teoria, consumano lo stesso ossigeno e producono la stessa quantità di CO2 di una persona, mentre per il futuro è prevista la costruzione di installazioni più grandi da applicare direttamente sull'uomo. E chissà che con le nuove tecnologie applicate al campo della coltivazione in orbita non si riescano a sviluppare in futuro sistemi agro-spaziali autosostenibili e che questi rappresentino la via d'uscita alla crisi per il settore agricolo tradizionale.